SANDRO IOVINE

INTERVISTA DI MAX BOSCHINI A SANDRO IOVINE

D: Ciao Sandro, la tradizione vuole che la prima domanda sia una sorta di biografia essenziale, giusto per capire meglio con chi abbiamo a che fare: chi sei, da dove vieni, dove vai?

R: «Credo di non essere la persona più adatta a parlare di Sandro Iovine, meglio lo faccia qualcun altro al mio posto, ammesso e non concesso ci sia qualcosa di interessante da dire sull’argomento. Per quel che mi riguarda, al massimo, potrei raccontare come mi piacerebbe essere percepito: una persona curiosa, che non si ferma alla prima apparenza delle cose. Un uomo che vorrebbe avere la rara capacità di stimolare chi incontra affinché l’approccio al mondo che ci circonda non sia contraddistinto da quella passività che sembra caratterizzare non tanto i nostri tempi, quanto una buona fetta della natura umana. Mi piacerebbe continuamente essere alla ricerca di un po’ di pulizia etica in questo mondo, che al massimo ci offre quella etnica. Quanto al da dove vengo, beh da Roma. Ma suppongo che il senso della domanda fosse un altro… e che la risposta classica e un po’ scontata da dire sia del tipo: ho fatto studi classici, seguiti da quelli Scienze Politiche e di lingua e cultura giapponese. A seguire ho speso nove anni della mia vita nella redazione di una rivista di settore, ho condiretto una testata per il Mifav e da una decina di anni dirigo un mensile cercando di conciliare ogni giorno le esigenze di mercato del mio editore e quelle della promozione della cultura fotografica alla disperata ricerca di un territorio condiviso. Ho creato a Roma nei lontani anni Novanta uno spazio dedicato al fotogiornalismo nonché una società che in Sardegna si occupa di editoria e gestione di spazi museali. E ancora ho organizzato e curato mostre e libri di fotografia, mi sono divertito un mondo a parlare di fotografia in radio in risposta alle sollecitazioni di Francesca Vitale di RadioRai. Infine ho insegnato storia della fotografia, fotogiornalismo e comunicazione visiva ai Master indetti dal Mifav-Università di Tor Vergata e presso istituzioni private di Roma e Milano private. Per alcuni sono anche un critico… che dire? Se questo significa che provo ad assumermi il carico di fornire chiavi di interpretazione dei lavori altrui cercando di contestualizzarli all’interno del panorama in cui si sviluppano, allora è una definizione che posso accettare e fare mia. Se invece con questo termine si vuole definire, come spesso accade, un personaggio che guarda con distacco il mondo e si esprime solo per manifestare la propria superiorità, non mi ci riconosco affatto e mi auguro che nessuno lo faccia per me. Dove sto andando? Il mondo della comunicazione per immagini sta cambiando profondamente e con subdola rapidità. Assistiamo a una teorizzazione dell’apparente semplificazione di ogni livello comunicativo che quasi sempre nasconde, neppure troppo bene, la volontà di obnubilare la comprensione profonda dei fatti. Cerco di essere dove prendono forma queste trasformazioni, provo ad andare in quelle direzioni che mi consentano di mantenere un rapporto con ciò che si sta sviluppando, condizione necessaria per possedere quel minimo di strumentazione critica indispensabile a non rimanere, almeno individualmente, sotto le macerie di livelli non espliciti della comunicazione».

D: I tuoi "fan" sanno che scrivi e parli di fotografia. Durante i miei anni di frequentazioni "fotografiche" ne ho sentite di tutti i colori: le dida non servono, le dida sono essenziali, parlare di fotografia è inutile, un'immagine vale più di mille parole. Come ti inserisci in questo contesto?

R: «L’eventualità che qualcuno possa essere tanto sconsiderato da dichiararsi mio fan mi induce a riflessioni di profonda preoccupazione per il sintomatico livello di disagio socioculturale che il fenomeno presuppone. Senza contare che la presenza di detti fan potrebbe presto indurmi a un pontificio utilizzo del pluralia maiestatis... Quindi Noi riteniamo che l’interrogativo sia alquanto impertinente in quanto per dare una risposta minimamente sensata si dovrebbero affrontare tali e tanti di quei perigliosi e burrascosi gineprai semiotici, da richiedere spazi poco adatti al web… No, infermiere non è ancora l’ora dell’iniezione… è troppo presto ho dettooo!!! Ahia!!!…

Va bene... ora che il tranquillante inizia a fare effetto… credo di poter tornare alla prima persona singolare…

Allora vediamo… la questione è oggettivamente complessa e una risposta è fortemente condizionata dal punto di vista assunto per affrontare l’argomento. Per poter discutere dell’opportunità o non opportunità di utilizzare una didascalia dobbiamo innanzitutto definire il campo all’interno del quale ci stiamo muovendo. Ovvero come prima cosa occorre chiarire qual sia la destinazione dell’immagine. Per un utilizzo giornalistico-editoriale? Per esprimere il sentimento di un autore che abbia finalità artistiche? Per informare non professionalmente qualcuno di qualcosa? E mi fermo qui solo per brevità. Nel primo caso la didascalizzazione di un’immagine ha una funzione informativa fondamentale e insopprimibile che nasce da esigenze strutturalmente pratiche. Deve fornire informazioni a chi la guarda partendo dal presupposto che possa non avere strumenti interpretativi adeguati. Floch, intorno alla metà degli anni Ottanta affermava che l’iconicità è comprensibile solo all’interno di una cultura, nell’ambito di un’economia degli atteggiamenti davanti ai differenti sistemi di espressione e significazione. Faccio un esempio semplice, semplice.


Mettiamo il caso di trovarci davanti a questa foto. Si possono vedere tre uomini palesemente orientali che indossano una divisa che fa pensare a quella dei praticanti di Shorinji Kempo, una disciplina marziale giapponese nata e praticata in origine all'interno dei templi. La presenza contemporanea del simbolo e l’azione di combattimento raffigurata, indurranno in circa il 98% degli occidentali in possesso di rudimenti basilari di storia del Ventesimo secolo una lettura del tipo: in estremo oriente esistono dei gruppi neonazisti che si allenano nelle arti marziali presumibilmente per compiere attentati o azioni violente in memoria dei fasti orribili del Terzo Reich. Una lettura del genere è evidentemente condizionata dalla presenza quasi ridondante della svastica (nonostante il simbolo nazista sia stato in realtà utilizzato invertendo i lati). Di fatto in Giappone il simbolo è definito comunemente 万字 manji (simbolo dell’eternità) e in ambito buddista sta a rappresentare l’armonia e l’equilibrio degli opposti. Nello specifico quando la svastica gira a sinistra (omote manji) rappresentanza l’amore e la misericordia. Se invece gira a destra (ura manji) rappresenta la forza e l’intelligenza. Colmato il gap culturale, la lettura dell’immagine che afferma l’essere in atto di una recrudescenza di fanatismo nazista appare conseguenzialmente arbitraria. Nella decodifica dell’immagine, non si è cioè tenuto conto dei codici utilizzati, ovvero di quella lista di accoppiamenti socialmente stabiliti tra tipi di significante e tipi di significato. Di fatto i soggetti della nostra fotografia, più che ferventi nazisti è probabile siano ben più innocui ferventi buddisti impegnati nella pratica delle arti marziali.

Riprendendo il ragionamento barthesiano, se la fotografia consente di riprodurre un referente come analogon non sarebbe necessario un codice interpretativo. Perciò, essendo la produzione della fotografia una questione di organizzazione della scena, non la si può considerare una trasformazione, come nel caso di una codifica. Il che significa che il messaggio contenuto all’interno di una fotografia non è codificato e quindi risulta essere un messaggio continuo. Questo approccio semiotico all’immagine di per sé potrebbe tendere a far escludere la necessità di sovrapposizione di testo parole al testo di immagini, ma non tiene conto da una parte della dimensione di condivisione culturale dei codici relativi a elementi eventualmente rappresentati all’interno dell’immagine, dall’altra della possibile perdita o trasformazione di senso nel corso di tempo degli stessi anche all’interno del contesto in cui si fossero sviluppati. Inoltre non considera i possibili intenti dell’autore, il quale potrebbe aver voluto racchiudere il proprio messaggio non tanto nell’immagine tout court, quanto in un testo più ampio che preveda la presenza contemporanea di un testo immagine e di un testo di parole per creare un messaggio che non è necessariamente coerente con i primi due, ma che ad esempio vada in una terza direzione.

Il problema è davvero molto vasto e troppo spesso viene ridotto a banalizzazioni superficiali che non tengono minimamente presente l’enormità di implicazioni che ho appena iniziato ad abbozzare.

Alleggerendo il tono del discorso, il testo fotografia a livello giornalistico ad esempio può non essere in grado di trasmettere con precisione alcune informazioni, relative ad esempio alla precisa quantificazione numerica di un determinato fenomeno, richiedendone quindi una esplicitazione in forma numerico-testuale da affidare alla didascalizzazione. Chiudo, visto che ho accennato al fotogiornalismo, ricordando che a livello professionale la presenza di una didascalia è la conditio sine qua non l’immagine può essere utilizzabile e quindi essere venduta. Ma abbiamo cambiato piano del discorso ancora una volta, a dimostrazione di quanto la questione possa essere complessa e articolata. Condannare aprioristicamente il supporto del testo didascalia è, secondo me, rischioso e riduttivo (e con questo non intendo dire che ogni fotografia debba altrettanto aprioristicamente essere accompagnata da una didascalia). Con un’affermazione provocatoria mi sento di poter dire che la negazione della didascalia in quanto supporto informativo o esplicativo all’immagine, si avvicina a trasformare il potenziale comunicativo dell’immagine a livello di pura significazione. Mi piace ricordare a questo proposito le parole di Martine Joly che nel suo Introduction à l’analyse de l’image cita l’esempio delle grotte di Lascaux, dove possiamo chiaramente riconoscere gli animali tracciati sulle pareti delle grotte da qualche nostro progenitore. Ma riconoscere le forme, significa che siamo in grado di decodificare con certezza le ragioni per cui quelle immagini sono state fissate sulla roccia? Cosa avrà spinto i nostri progenitori a lasciare quelle immagini? Ritualità? Scopi didattici? Scopi religiosi? Scopi simbolici? Chi può dirlo con esattezza. Un grande equivoco, che ricorre intorno alla fotografia, vuole che in virtù della sua riproducibilità meccanica essa sia latrice di una verità e di riconoscibilità del soggetto raffigurato sufficienti di per se a renderne comprensibile universalmente il significato. Cosa tutt’altro che vera e facilmente contestabile fin dalla presa in esame del condizionamento esercitato dal senso di lettura abituale sull’interpretazione del messaggio delle più semplici geometrie compositive. O dall’attitudine a utilizzare strutture linguistiche logiche o associative, tipiche rispettivamente di scritture alfabetico sillabiche o ideo-pittografiche. Personalmente credo che le valutazioni debbano essere effettuate caso per caso cercando di mantenere i piedi per terra. Se debbo esprimere una valutazione di grado estremamente empirico sarei portato a dire che detesto profondamente quelli che, soprattutto in gran parte del mondo amatoriale, vengono definiti titoli. Mi infastidiscono perché nel 95% dei casi risultano ridondanti, pleonastici e fin troppo spesso la conoscenza personale di chi ha attribuito improbabili titoli a improbabili fotografie ha rivelato che questa operazione era volta più che altro ad autoproclamare l’autore dell’operazione artista. Per decenza la pianto qui, ma ci sarebbe parecchio altro da dire avendo appena sfiorato la superficie della questione».

D: Sfondi una porta aperta. Personalmente odio i titoli e li trovo inutili. Alcune mie foto hanno più di un titolo, sulla base dell'ispirazione del momento...

Le tue parole sono state chiarificatrici e vorrei chiederti ora mille cose, dai testi critici alla figura del photo editor: non farò però nulla di tutto questo, perché il Vaticano si è inserito nella nostra intervista. Nei giorni scorsi è montata una piccola polemica riguardante Pio XII ed il rapporto con gli ebrei nel periodo della seconda guerra mondiale. In modo particolare la polemica interessa l'ipotetica e desiderata visita di Benedetto XVI in Israele che sarebbe stoppata a causa della targa presente sotto la fotografia di Pio XII, presso il museo dello Yad Vashem. La didascalia riporta alcune frasi che secondo il Vaticano rappresentano una palese contraffazione storica. Ti chiedo quindi: vale più una didascalia o il rapporto con un popolo?

R: «Mi pare che la schiera di persone che a vario titolo si esprimono in campi non di loro competenza sia già abbastanza ampia da non necessitare di essere ulteriormente infoltita per mezzo della mia adesione con dichiarazioni che, al massimo, possono costituire opinioni personali, buone giusto per passare un po’ di tempo al bar in compagnia di amici. Oltretutto a rendermi particolarmente ritroso c’è il fatto che, da sempre, gli argomenti che riguardano i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo sortiscono su di me il prodigioso effetto di farmi avvertire immediatamente i sintomi di un’implacabile occlusione alveolare con conseguente senso di soffocamento. E come se non bastasse, all’epoca dell’università mi ero prefisso come obiettivo quello di tentare di dare ai miei studi di Scienze Politiche uno sbocco naturale in direzione della carriera diplomatica. Ma un paio di serate vissute nell’ambiente delle ambasciate riuscirono brillantemente a farmi sviluppare nei confronti della diplomazia e delle relative ritualità, le stesse reazioni allergiche di cui la natura aveva provveduto a dotarmi nei confronti delle vicende relative all’ebraismo e al cristianesimo. Facile immaginare quanto possa essere propenso ad affrontare simili tematiche, nei confronti delle quali oltretutto non posso nemmeno vantare competenze adeguate. Mi viene in mente una domanda retorica posta durante una lezione dal prof. Elveno Pastorelli, nei lontani anni Ottanta docente di Storia dei trattati e politica internazionale presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma:” Non crederete mica che diecimila, ventimila, trentamila o milioni di morti siano un vero problema per sedersi a un tavolo, a livello di politica internazionale?” Le chiacchiere che possiamo fare al bar non valgono nulla, come non vale nulla, nell’equilibrio geopolitico qualunque senso di umanità o considerazione dell’identità di un popolo. E tutta la storia recente e remota mi pare lo dimostri in modo ricorrente e inequivocabile. La didascalia a una foto è altrettanto priva di valore, almeno che non la si voglia sfruttare come casus belli, magari generato per rimandare una visita politica mentre si proclama di volerla effettuare. A questo punto non è pensabile che il Vaticano accetti di passar sopra al presunto problema, in quanto il farlo costituirebbe un’implicita ammissione di colpa relativamente a responsabilità di sostegno morale nei confronti del nazismo. Del resto, quand’anche Pio XII avesse espresso la sua condanna etica nei confronti del genocidio degli ebrei, ci sarebbe davvero qualcuno tanto ingenuo da illudersi che sarebbe effettivamente cambiato qualcosa? Il Vaticano come Stato temporale, in assenza di un potenziale bellico considerabile, ha sempre fatto un utilizzo esasperato della diplomazia e della politica per associarsi a dei poteri forti sul piano militare in grado di garantirne la salvaguardia a livello di privilegi politici ed economici. In cambio ha offerto il non piccolo contributo del proprio potere morale, scagliandosi contro le ingiustizie del mondo solo quando questo non presupponeva l’insorgere di reali ripercussioni. Non dimentichiamo il ruolo avuto nella tessitura della politica internazionale, dal predecessore dell’attuale Pontefice. Sempre rimanendo in tempi a noi vicini basti pensare anche alla surreale vuotezza di senso ai fini pratici degli appelli domenicali, che da quando ho memoria si succedono in pratica tutte le settimane a favore di questo o quel popolo oppresso o soppresso. O ancora la patetica e inutile condanna di questo o quel dittatore. Dalle nebbie che avvolgono nella mia memoria gli scranni della facoltà di Scienze Politiche emerge a questo punto un altro ricordo, stavolta dell’esame di Storia delle dottrine politiche. Era una frase di Guicciardini, citata dal professor D’Addio nel suo manuale: “Chi disse di uno populo disse veramente di uno animalo pazzo”... Al quale garba d’essere fottuto!... se mi è consentito aggiungere una coda di meno accademica saggezza popolare».

D: Direi che il tuo discorso non fa una grinza :-)

Lasciamo il campo minato in cui ti ho fatto ruzzolare, tornando a parlare di cose a noi più vicine. Sul tuo blog si parla spesso di fotogiornalismo e qui voglio andare a parare. Da più parti giungono segnali di crisi e molte sono le argomentazioni a supporto: dall'aumento della produzione di immagini, senza la necessaria cultura a produrla, al confronto serrato con altri media più veloci e dalla sintassi più smart (tv, internet) con conseguente diluizione dell'attenzione dei consumatori nei confronti della carta stampata. Come giudichi tutto ciò?

R: «Le profezie sulla fine del mondo fanno parte dell’inevitabile folklore di fine millennio. Col senno di poi avendo iniziato a occuparmi di fotogiornalismo all’inizio degli anni Novanta, non dovrei sorprendermi quindi se, da allora a oggi, sciagure e disastri hanno rappresentato e rappresentano il leitmotif delle dissertazioni degli addetti ai lavori sul fotogiornalismo. Certo dalla fine del millennio tra poco saranno passati una decina di anni e potremo anche smetterla. Al di là delle battute, l’argomento è spinoso, ancorché sia facile ironizzare sulla propensione all’autocommiserazione che rende subito distinguibile un fotografo professionista in mezzo a un milione di altri individui che svolgono attività differenti. Come al solito il problema può, e aggiungerei dovrebbe, essere affrontato, sotto vari punti di vista. Al di là degli... epigoni poco convincenti di Geremia e del suo Libro delle Lamentazioni, a mio avviso dovremmo riflettere anche sui rapporti che sussistono tra il senso stretto delle parole e quello suggerito dalla pratica di utilizzo. Il sostantivo femminile invariabile crisi indica il perturbamento di una situazione o di un rapporto, o la sussistenza di un momento grave o pericoloso sia relativamente a persone, sia a cose. Se ci rifacciamo a dei principi elementari di semiotica forse appare più evidente quanto il livello di analisi sia limitato se riduciamo tutto alla parola crisi. In una relazione segnica è implicita una correlazione tra un elemento del piano del contenuto e uno del piano dell’espressione, che si costituiscono come tali all’intero della relazione stessa. Di fatto la semiosi avviene in presenza di un interprete che istituisce un nesso tra due unità. La prima diventa espressione e la seconda funge da contenuto. Nell’intuizione di Pierce lo schema binario della relazione segnica viene ampliato, costringendoci a pensare la relazione non più come binaria bensì triadica, grazie all’introduzione di un terzo elemento detto interpretante. Ora se nel nostro caso il representamen potrebbe essere costituito, ad esempio, da una riduzione nelle pubblicazioni di reportage fotogiornalistici, occorrerà la presenza di un interprete in grado di cogliere la relazione tra la scarsità di pubblicazioni fotogiornalistiche e una malattia che affligge il fotogiornalismo. Per legare il sintomo alla malattia l’interprete utilizzerà quindi un interpretante, il sostantivo crisi. In altre parole farà ricorso a un secondo significante che evidenzierà in che senso si può dire che un certo significante veicoli a un dato significato. Ma una volta che l’interprete abbia colto il nesso tra significante e significato, non ne sapremo molto più di prima. Ovvero se parliamo di crisi del fotogiornalismo di sicuro non stiamo dicendo qualcosa di errato, ma stiamo spostando l’attenzione di chi ci ascolta in una direzione dove a farla da padrone è l’effetto e non la causa. Quindi nell’assunto di questo sostantivo, si presuppone l’essere in atto di una situazione, ma si escludono dalla valutazione le cause che tale situazione hanno generato. In più personalmente colgo nell’uso del termine crisi una strisciante passività nell’accettazione dello stato di cose. Conseguenza forse dell’impiego massivo fatto da un certo giornalismo sensazionalistico. Tradotto in termini pratici mi sembra che l’implicito sia “ci è piovuta sulla testa una crisi, non si sa come, non si sa perché, ma non c’è altra soluzione che andarsela a prendere in quel posto”. Purtroppo i fatti dimostrano come in genere la conclusione del ragionamento sottinteso abbia spesso, proprio a causa della passività nella ricezione, forti richiami con la realtà. Ciò non di meno sarebbe nostro dovere impegnarci per capire che la crisi da cui siamo partiti non ci è piovuta addosso per caso, ma è il risultato di precise scelte economico-strategiche assai ben calcolate. Già nel 2001 (era storica con gli attuali ritmi di trasformazione) nell’apologetico documentario War photographer diretto da Christian Frei e dedicato a James Nachtwey, quest’ultimo denunciava le influenze esercitate dagli investitori pubblicitari sull’utilizzo, e quindi sulla produzione, di servizi fotogiornalistici. Per chi fosse interessato all’argomento consiglio la lettura di un'intervista del 2005 a Francesco Zizola dove l’argomento dei condizionamenti imposti dagli inserzionisti sulla scelta dei servizi fotografici è trattato con estrema chiarezza. Per farla breve al giorno d’oggi nessuna testata giornalistica su carta, con l’eccezione probabilmente di Internazionale è in grado di sopravvivere con il venduto edicola. Praticamente tutto quel che riesce a raggiungere le edicole ci arriva in virtù della presenza di spazi pubblicitari a pagamento. Inutile sottolineare che l’investimento avviene e si protrae nel tempo solo ed esclusivamente nella misura in cui genera un vantaggio per l’inserzionista. Se ciò non si verifica le pianificazioni vengono cancellate e le campagne scompaiono con forte detrimento economico per gli editori. Ovvio quindi che nelle redazioni si faccia ben attenzione a non affiancare alle ammiccanti pagine pubblicitarie fotografie di realtà tutt’altro che rassicuranti. Il rischio inaccettabile è che i contenuti del reportage rendano meno penetrante l’azione del layout pubblicitario facendo colare a picco la propensione all’acquisto del potenziale cliente. Ma se le immagini che cercano di raccontare davvero la realtà con un serio intento giornalistico non vengono più pubblicate, è normale che per una banale regola economica relativa alla posizione di equilibrio del mercato, anche la loro produzione è destinata nel breve a ridursi drasticamente. In compenso si allargherà lo spazio a disposizione di immagini sempre meno incisive e sempre meno giornalistiche. E questo è solo un primo aspetto della questione i cui risvolti politici non sono certo trascurabili. C’è una battuta piuttosto amara che amo fare a proposito di questi argomenti: “Tutto cominciò con il Drive in”, alludendo ovviamente all’omonima, e purtroppo epocale, trasmissione televisiva. Proprio a partire dall’inizio degli anni Ottanta, a mio avviso, ha infatti avuto inizio un processo di dissolvimento dei valori di attenzione all’impegno sociale che hanno prima sgretolato e poi fatto scomparire i riferimenti precedenti indispensabili alla formazione di una coscienza di autorappresentazione indipendente. Il bombardamento continuo attraverso i media ha creato, suggerito e infine imposto modelli semplificati di approccio al reale la cui reiterazione continua nel tempo ha praticamente annullato la capacità critica dei singoli. Oggi nella quasi totalità siamo stati trasformati in strumenti facilmente manipolabili sia in quanto consumatori pilotati che generano profitto economico, sia in quanto elettori-convalidatori dell’assunzione di potere politico.

Si dice che la nostra sia la civiltà delle immagini. SI dice che ci siano troppe immagini in circolazione. Io credo che la nostra sia la civiltà delle non-immagini e che ci siano troppe cattive immagini, non certo troppe immagini. Il sottinteso è che le buone immagini siano quelle in grado di suscitare riflessione e approfondimento e al contrario le cattive immagini siano quelle che appiattiscono la capacità speculativa dei singoli e delle masse. Manca, soprattutto nel nostro Paese, il concetto stesso di cultura delle immagini. Se qualcuno in Italia riceve dei rudimenti di lettura delle immagini all’interno della scuola dell’obbligo può considerarsi un unto del Signore. Mancano strutture universitarie che prendano in considerazione la fotografia come possibile e reale materia di analisi e non solo come uno strumento di rilevazione sul campo.

Se andiamo a vedere i curricula dei nostri fotografi professionisti, a meno che non abbiano fatto specifici studi all’estero, verificheremo che hanno le formazioni più eterogenee. Ma se andiamo a vedere i loro colleghi ,ad esempio statunitensi, scopriamo che sono per la maggior parte laureati in fotogiornalismo. Io non credo che aver frequentato un’università significhi automaticametne avere migliori capacità, ma è certo che se la formazione di base è fortemente mirata e di alto livello, le probabilità che emerga qualcuno sono incrementate in modo esponenziale. Con questo non voglio dire che i nostri fotogiornalisti siano aprioristicamente meno preparati di quelli stranieri. Dico che devono fare una fatica molto più grande dei colleghi nati all’estero. Dico che devono scrollarsi di dosso pregiudizi e pregressi di ignoranza colpevole e totale assenza di considerazione della dignità del proprio ruolo in primis da parte degli stessi fotografi. Il problema principale però non è, a mio avviso, l’eventuale impreparazione dei fotogiornalisti, quanto quella del pubblico che difficilmente è in grado di comprendere davvero il senso profondo di quanto vede. Fenomeno del resto inevitabile quando a scuola ti insegnano a leggere un libro e a scrivere un tema, ma nessuno ti dice come affrontare la lettura o peggio la produzione di un’immagine. Che poi si debba assistere a un prevedibile fenomeno di ridimensionamento, per altro già verificatosi, della carta stampata nei confronti di altri supporti, non credo si debba considerare in particolare relazione con le vicissitudini del fotogiornalismo. Non è che l’invenzione dei trasporti aerei abbia cancellato i treni o che prima non si viaggiasse. Ci voleva più tempo, ma si poteva fare lo stesso e si continua tuttora a sfruttare le rotaie. Cambierà il supporto e le forme di espressione si potranno trasformare, lo hanno già fatto e continueranno a farlo. Basti pensare al fenomeno dei prodotti giornalistici multimediali che da qualche anno sta muovendo i suoi passi. Oggi iniziamo a vedere finalmente qualcosa di presentabile, dopo tanti esperimenti improbabili firmati anche da nomi i cui legittimi proprietari possono solo sperare che il mondo dimentichi i loro primi motion.

Il fotogiornalismo non è destinato a morire per colpa dell’ampliamento dell’offerta mediatica, anzi quella è la sua speranza di sopravvivenza. Il fotogiornalismo a mio avviso rischia di estinguersi, perché se vero giornalismo, è inevitabilmente scomodo. Ma questa non è certo una novità e il fatto che questa idea vada di pari passo con la storia della civiltà umana, tutto sommato fa ben sperare su un possibile, per quanto arduo, superamento della... crisi».

D: Ciò di cui parli è spesso entrato nelle interviste che pubblichiamo su D(R. Le tue ultime parole aprono non pochi squarci. Sovente ho chiesto ai miei interlocutori se contassero più gli studi o il talento naturale. E poi, prima di lasciarti ribattere, mi voglio buttare ti riporto una mia considerazione personale. Come sai sono un fotoamatore, un fotoamatore evoluto diciamo. Non per vantarmi ma come semplice constatazione, aggiungo che mi capita ogni tanto di esporre un po' in giro per il globo. Con l'universo mondo è tutto più facile: rispondono alle mail, se non ti selezionano spiegano dove hai sbagliato, non chiedono denaro o al massimo giusto un contributo risibile, ti considerano insomma. In Italia è l'esatto opposto: denaro, denaro, contributi, zero feedback. Ho finito. Che mi dici?

R: «Una volta in un’intervista per la trasmissione Camera Segreta Gianni Berengo Gardin, onesto artigiano della fotografia ingiustamente accusato da molti di essere un Maestro, dichiarò che non capiva perché si consideri naturale che un ingegnere e un medico debbano studiare per cinque o dieci anni, mentre quando si parla di un fotografo non si pensa mai che per completare la sua formazione sia necessario lo stesso tempo e la stessa applicazione. La risposta alla saggezza del buon Gianni potrebbe essere che in media, ma non sempre purtroppo, l’analfabetismo fotografico fa meno danni immediati di quello medico o ingegneristico.

La mia risposta è di una salomonica banalità: occorrono sia lo studio sia il talento. Nello sport puoi avere tutto il talento che vuoi, ma se non ti alleni non fai il record. Al contrario puoi allenarti quanto ti pare, ma se non hai il talento il record non lo fai lo stesso.

Il problema è che in fotografia si confonde il talento con la sola capacità di fare buone immagini. Ma quello, mi piace affermare provocatoriamente, è forse l’ultimo dei requisiti. Mi sono passate sotto le mani decine di studenti di reportage con il talento necessario a produrre buone immagini, ma quasi nessuno di loro sfonderà nella professione, perché saprà anche fare buone fotografie, ma non ha un carattere adatto e questo lo fermerà. Occorre sapersi relazionare, essere manager di stessi, saper intuire, prevedere, rischiare, avere la capacità di sviluppare reti di contatti infinite e poi, solo dopo aver dimostrato di saper fare tutto questo, bisogna anche saper fare buone foto. Ma le buone foto si fanno solo se si è studiato il lavoro altrui, se si sono persi tre o quattro decimi di visus a imparare a memoria i libri che hanno segnato la storia della fotografia. Ma anche questo non basta, la fotografia come tutte le cose della vita non è settoriale, richiede contatto con la vita, con la cultura. Andare al cinema, ascoltare musica, vedere film, leggere libri e giornali, studiare giornalismo, andare continuamente a mostre di pittura, scultura, fotografia sono tutte attività che fanno parte del corso di studi per diventare un buon fotogiornalista, nonché un essere umano accettabile ma questo credo sia un valore superato. Sulla situazione italiana non voglio aggiungere niente dal momento che potrei solo scivolare nel gossip di basso profilo. E se probabilmente è vero che questo rappresenta l’unica soluzione narrativa adeguata a descrivere la situazione, dall’altra parte vorrei non mi appartenesse fintanto che sarò in grado di controllare razionalmente le mie parole. Credo che la situazione sia già abbastanza grave in Italia da non rendere necessario l’adeguarsi al livello medio. In assoluto credo che non guasterebbero un minimo di umiltà e capacità di ascoltare chi ti propone i suoi lavori. Il nostro compito dovrebbe essere cercare di suggerire, sulla base di un’esperienza che si presume maggiore, il modo migliore per valorizzare i lavori che ci vengono sottoposti. Ma questo è possibile solo se prima ci siamo sforzati di capire cosa volessero dire gli autori con quei lavori. Questo significa adattare flessibilmente il nostro modo di concepire la fotografia alle esigenze di chi abbiamo di fronte per offrirgli il consiglio migliore e non per dimostrargli che non capisce niente e che noi ne sappiamo tanto, ma tanto più di lui. Mi pare però di poter dire che al di là delle parole questi miei pensieri non siano un gran che condivisi nella pratica da molti colleghi.

Denaro e contributi sono indispensabili perché purtroppo ci sono delle spese concrete da affrontare se si allestisce un evento espositivo o si pubblica qualcosa. Negli anni successivi al 2001 abbiamo assistito a tagli annuali e consecutivi pari ogni volta al 50% dei finanziamenti per le attività culturali. Se già prima non era facile accedere a finanziamenti di qualche tipo, oggi è ipotizzabile solo a livello politico. E purtroppo i pochi che hanno qualche disponibilità da mettere in gioco investono solo sul sicuro continuando a proporre quelle che, con convincente metafora, un mio caro amico definisce mostre dei morti. Il che significa che le possibilità di un giovane esordiente poco incline a vendersi l’anima, quando non altro..., sono prossime allo zero».

D: Una situazione desolante, senza dubbio. Per concludere, ho un'ultima domanda da porti. Abbiamo parlato di tante cose e potremmo continuare a lungo, ma il web mal si adatta a testi troppo lunghi. Design(Radar non è un sito dedicato solo alla fotografia, ma in generale all'arte, al digitale, ai pixel, alla musica e a molto altro. Qual è il tuo rapporto con il digitale?

R: «Il mio rapporto con il digitale è assolutamente neutro e, ammesso di aver compreso correttamente il senso della domanda, mi pare anzi che si tratti di un classico non problema, quantomeno nell’accezione che comunemente si attribuisce alla questione.

Trovo semmai interessante procedere a una prima elementare distinzione di senso nella contrapposizione tra analogico e digitale.

Proviamo a pensare a un orologio. In quello che definiamo analogico le lancette rappresentano il tempo per mezzo di uno scorrimento continuo, mentre in uno digitale lo scorrimento continuo del tempo sarà rappresentato da un quadrante numerico in forma di tratti discontinui. Altrettanto discontinua è la sequenza di numeri e cifre che forniscono l’indicazione del tempo. Ora sono convinto che se qualcuno chiede l’ora a qualcun altro, il fatto che quest’ultimo la rilevi da un orologio analogico o digitale, non influisca minimamente sulla ricezione dell’informazione. Né spero sia mai venuto in mente a nessuno di chiedere se l’ora fornita è digitale o analogica...

Ma torniamo al digitale e all’aspetto teorico interessante della sua irruzione nel mondo della fotografia. Sappiamo che negli anni Sessanta il buon Roland Barthes, peraltro rifacendosi a conclusioni di Pierce, giunse a definire la fotografia come un messaggio senza codice, attribuendole quindi valore indicale in quanto, per dirla con Pierce, si tratta di un segno con una connessione con il proprio referente talmente forte da risultare praticamente privo di codifica. Siamo invece in presenza di un codice quando il passaggio dal referente al segno appare tanto marcato da presupporre inevitabilmente in percorso di ricongiungimento. L’icona è invece sempre un segno trasformativo. In breve della cosiddetta fotografia analogica possiamo dire che si tratta di un messaggio senza codice, a tratti continui, un indice. Mentre nel caso di quella digitale diremo che si tratta di un messaggio codificato, a tratti discontinui, di un’icona.

La fotografia analogica ha una natura profondamente indicale in quanto deriva dal principio dell’impronta a tratto continuo. Ma la fotografia digitale porta con sé le caratteristiche dell’icona, in quanto sfrutta il meccanismo dei tratti discreti organizzati e ricostruiti a partire da un codice. Interessante quindi come in questo senso la fotografia digitale sia teoricamente più vicina al disegno manuale, in quanto icona, di quanto non lo sia quella analogica, in quanto indice. In realtà il discorso è assai lungo e complesso e immagino non sia questa sede per approfondirlo. Ecco direi che il mio rapporto con il digitale potrebbe incentrarsi al momento sull’interesse per il recupero da parte della fotografia di un forte principio di codificazione, rispetto allo statuto privo di codice della fotografia analogica, ovvero sulla trasformazione epistemologica che ne può derivare per la nostra cultura visiva.